Maria Amata Di Lorenzo
La luce e il grido
Introduzione alla poesia di Elio Fiore
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«… un libro prezioso per conoscere più profondamente un poeta di cui si sono occupati i maggiori intellettuali italiani ma che presso il grande pubblico deve ancora far sentire il suo grido e far risplendere la sua luce…»
Maria Gisella Catuogno
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Per voi Lettori
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Un giorno il poeta Biagio Marin stava sulla spiaggia di Grado, la sua città, tutto intento a fotografare il cielo rannuvolato. Gli passò accanto una bambina che gli disse con velato rimprovero: «Non si fotografano le nuvole». Al che lui, di rimando, lievemente sorpreso: «Ma mi satu, son un poeta…». E lei, pronta, con l’occhio vispo, ribatté: «Ma va, che i poeti xe tuti morti!»
Mi tornava in mente questo episodio il giorno in cui ho avuto tra le mani le prime copie del mio libro, La luce e il grido, dedicato al poeta Elio Fiore. Perché quando io lo conobbi, nel lontano 1993, recandomi a casa sua per una intervista, era la prima volta che conoscevo un poeta vivente. Anche per me, infatti, i poeti fino a quel giorno erano “tutti morti”, come per quella bambina sul molo di Grado, essendo io uscita da poco tempo dall’esperienza degli anni universitari in cui avevo studiato ed amato centinaia e centinaia di autori, necessariamente nati e vissuti in altre epoche.
Con Elio Fiore invece avvicinavo un poeta vivente, un poeta con cui anzi da quel giorno avrei stretto una lunga e importante amicizia, che è durata fino alla sua morte e che non si è mai conclusa, perché oggi prosegue, misteriosamente ma concretamente, su un piano diverso.
Quando lo incontrai, mi accorsi che viveva assai poveramente, eppure mi sembrava l’uomo più ricco dell’universo: aveva dentro una gioia, una gioia pazzesca, irresistibile, e io volevo capire che cosa fosse quella gioia, quel fervore, quella fede.
È stato molto importante per me poter godere della sua amicizia, e con questo libro io ho adempiuto a una promessa. Elio, infatti, mi fece promettere che dopo la sua morte gli avrei dedicato un libro, me lo fece promettere solennemente. E, come sapete, ogni promessa è un debito.
Così questo volume, La luce e il grido, uscito ora in una nuova edizione dopo la prima del 2012 con Fara Editore, e uscito proprio in occasione del ventennale della sua scomparsa, io spero tanto che voi vogliate leggerlo, che vi piaccia e che, soprattutto, vi faccia conoscere un poeta capace di emozionarvi come emozionò me fin dalla prima volta e di farvi scoprire il “segreto” della sua pazzesca felicità.
Maria Amata Di Lorenzo
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L’INTERVISTA
La luce e il grido. Maria Amata Di Lorenzo e la poesia di Elio Fiore
di SIMONA LO IACONO
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Era un cristiano del ghetto, e a chi gli chiedeva stupito il perché di questa commistione per i più inaccettabile tra il Dio degli ebrei e quello del Cristo, opponeva la disarmata realtà di Miryam di Nazareth. In lei – diceva – ebrea e al tempo stesso madre del Cristo, ogni disarmonia della storia sfumava come un balocco, o come un fastidioso giro di nebbia.
Abitava dunque, Elio Fiore, al Portico d’Ottavia, nel cuore del ghetto di Roma. Di esso, dei suoi anfratti segnati dai nomi delle corporazioni – via dei falegnami, via dei funari – ed eretto in onore di Giove e Giunone, amava il silenzio, una mancanza di rumore che si immetteva nella ricerca del senso dell’esistenza, e che restituiva all’orecchio il suono dei versi.
Era un silenzio che copriva come una lapide pietosa le oscenità del dolore, le barbariche incursioni nella vita dell’uomo, la violenza del tempo. Era infatti ancora un bambino quando, il 19 luglio del 1943, rimase sotto le macerie della propria casa bombardata e – messo in salvo – assistette impotente alla deportazione ebrea: file di convogli verso una destinazione sconosciuta, uomini come feretri che oscillavano già morti senza saperlo.
Da questo momento Elio Fiore diventa più che poeta, diventa testimone, nunzio che non tace. Diventa grido. Non a caso la sua raccolta “In purissimo azzurro” reca come epigrafe le tuonanti parole di Isaia: «Va’, sii la vedetta notturna, quello che vedi grida» (Is. 21,6).
Adesso la sua parabola di poeta e uomo è riportata sapientemente alla luce dalla delicatissima mano di Maria Amata Di Lorenzo, che ne dipinge la natura appartata e tuttavia sorridente, la misticità tutta venata di speranza, l’ottimismo coltivato a dispetto del «sangue e del grido della storia».
Elio Fiore è poeta dell’invisibile, ma di un invisibile non lontano, non distante, tutto partecipe – al contrario – del dolore dell’uomo, incarnato nelle sue cadute e nel suo desiderio di espiazione. «Ecco, diceva, la fede e nient’altro è la vita. Tutto il resto è Storia».
Chiedo quindi a Maria Amata di Lorenzo di parlarci di lui.
Cara Maria Amata, il tuo saggio “La luce e il grido” ricostruisce meravigliosamente la vicenda di un poeta altrimenti dimenticato, e che – invece – godeva dell’ammirazione di artisti come Eugenio Montale, Giuseppe Ungaretti, Mario Luzi, Carlo Bo. Parlaci di lui, del suo percorso poetico.
Elio Fiore, morto nel 2002, era nato a Roma nel 1935 e aveva esordito in poesia nel 1964 con la raccolta “Dialoghi per non morire” tenuta a battesimo dal grande Giuseppe Ungaretti, quasi una “investitura” poetica. Visse per motivi di lavoro in varie città italiane finché potè tornare a Roma, dove svolse la mansione di bibliotecario, e andò ad abitare al Ghetto, che tanta importanza poi rivestirà per la sua dimensione poetica e prima di tutto umana. Fiore viveva nel culto dei poeti del passato e di quelli a lui contemporanei, ma non imitava nessuno né assomigliava a nessuno. Il suo percorso quindi è estremamente originale, e si snoda per circa un quarantennio attraverso i temi della profezia, della memoria, della fede, della necessità di scrivere, di guardare e di raccontare. Una missione al tempo stesso poetica e personale.
I temi della poesia di Elio Fiore sono la memoria intesa come dovere morale, la sua tensione verso l’eterno, la sua capacità quasi ascetica di vivere il presente attraverso la lezione del cielo. Ci vuoi raccontare di quando lo hai incontrato in casa sua per intervistarlo?
Ho un ricordo molto vivo di quell’intervista, nonostante siano trascorsi daallora quasi vent’anni. Ricordo quel caldo pomeriggio di giugno, le strade assolate del Ghetto, i ragazzi che sciamavano al Portico d’Ottavia appena usciti da una scuola vicina, il silenzio denso e profondo che mi investì non appena varcai il portone di legno corroso, con i ballatoi deserti e un uscio che si apriva e vi compariva il poeta: una persona umile e raccolta, ma anche piena di arguzia e di grazia. L’intervista fu molto piacevole, a un certo punto si ruppe il registratore e io trascrissi tutto sul quaderno, le sue parole erano così vive e profonde che le avrei potute ripetere a memoria una per una tanto mi erano rimaste impresse. Quel giorno io compresi due cose: che si poteva amare la scrittura, la poesia, con una passione pura e incondizionata, come faceva lui, che di poesia viveva, si nutriva, come le piante si nutrono di luce, e che si poteva anche essere felici credendo in Dio. Non lo ritenevo una cosa possibile, personalmente ero rimasta a un’idea piuttosto ammuffita di religione, quella orecchiata da bambina al catechismo, una serie di precetti e di doveri senza nessuna gioia. Quel poeta che vedevo quel giorno per la prima volta parlava molto di Dio e aveva dentro una gioia incontenibile, pazzesca, assolutamente incomprensibile per me. Io dovevo capire a tutti i costi da dove venisse quella gioia, quel fervore. Per fortuna quell’incontro non fu un caso isolato, ebbi modo di frequentarlo e di godere fino alla sua morte della sua amicizia, che è stata molto significativa per me e che mi ha dato molto, sul piano e umano e letterario. Un giorno mi fece promettere che dopo la sua morte avrei scritto un libro su di lui, ed è quello che ho fatto: con questo libro sento di aver mantenuto una promessa.
L’esperienza della guerra ha toccato Elio Fiore quasi come un insegnamento universale. Suoi sono questi magnifici versi: «Qui, nel segreto della mia dimora, scava la voce / della memoria, nel fragore del Tevere cresce la pietà, / viva dal 16 ottobre 1943. Quando il mio piede innocente / fu bagnato dal sangue dei giusti di Israele. / Quando gli empi urlavano, sfondavano le porte coi fucili…». La guerra assurge dunque a simbolo della condizione dell’uomo, della sua perenne lotta tra bene e male. È così, cara Maria Amata?
Dici bene, Simona. Da un lato c’è la guerra, la grande guerra, quella che Elio bambino ha vissuto sulla sua pelle con le sue atrocità e i suoi orrori, e poi c’è la guerra, l’altra, quella quotidiana, quella perenne lotta tra bene e male come dici tu, quella guerra che si scatena principalmente dentro noi stessi, che siamo spesso lacerati, divisi, desiderosi di andare verso la luce ma impantanati il più delle volte nelle tenebre più fitte. Questo conflitto, a pensarci bene, è eterno. «La storia partorisce dei mostri – diceva Fiore -, ma nella storia, a dispetto di tutto, si pone il provvidenziale cammino dell’Uomo verso la luce».
Infine, cara Maria Amata, parlaci del ruolo che secondo Elio Fiore doveva avere il poeta. Un suo verso recita infatti: «La poesia è una chiamata per captare la voce della giustizia». Chi è il poeta, secondo Elio Fiore?
Ti rispondo con le sue stesse parole: «È poeta – diceva Elio Fiore – colui che vede la vita con occhio diverso dagli altri ed è possessore di una verità che deve trasmettere ai suoi fratelli uomini. In questo consiste la missione del poeta, il suo messaggio: testimoniare il suo tempo, il tempo della bellezza, il tempo della poesia».
(c) Simona Lo Iacono – all rights reserved [intervista pubblicata su Letteratitudine]
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Una preziosa lettrice mi scrive…
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Cara Maria Amata,
ho appena concluso la lettura del tuo testo che trovo dal punto di vista umano molto bello per il senso di amicizia che traspare, dal punto di vista letterario interessante ed esauriente.
Non conoscevo il poeta Elio Fiore prima che tu me ne parlassi e scrivessi su di lui e sulle sue poesie, per fortuna l’hai fatto rendendo un gradito servizio non solo alla sua memoria, ma a tutti noi che abbiamo potuto apprezzare, grazie alle testimonianze da te raccolte in prima persona, un poeta al di fuori del coro, forse per questo poco noto ai più.
La sua vita, come si dipana nel tuo racconto, è stata infatti sommessa, ma non certo poco significativa, anzi esemplare e “profetica” se per profeta intendiamo non colui che compie vaticini o esterna apocalittiche anticipazioni, quanto colui che vuol fare di sé trasparenza di una Parola che lo colma e lo trascende.
Ho gustato molto l’intervista che apre il volumetto, essa mette a nudo un’umanità candida, ma non astratta, calata in una storia di sangue e carne, ma sempre all’ombra dell’Eternità. In questo senso hai ben messo in luce la consonanza del poeta, profondamente cristiano e convinto cattolico, con l’ebraismo biblico, non solo per la sua frequentazione del ghetto romano dove ha risieduto a lungo, ma per la sua forte partecipazione alla tragedia dell’olocausto a cui cui ha voluto scientemente rendere memoria per non dimenticare.
Come egli afferma nell’intervista, la storia può insegnarci molto, ma può pure, attraverso corsi e ricorsi, generare “mostri”, cioè ripetere gli errori del passato, perché il percorso storico dell’umanità (e qui emerge l’esperienza cattolica) è sempre un rischio della libertà, non un cammino necessario verso il progresso. L’idea di una sorta di evoluzionismo materiale e morale, si è rivelata illusoria alla luce dei tremendi avvenimenti che hanno insanguinato i tempi moderni; ciò non toglie che per Fiore la prospettiva ultima sia sempre quella della salvezza, del prevalere del progetto buono di Dio, sulla fragilità delle costruzioni umane.
La tua analisi della cifra poetica di Elio Fiore è molto puntuale ed esaustiva con la citazione di numerosi illustri personaggi che hanno avuto con lui relazioni di un certo spessore, da Montale a Luzi, con il riferimento ai critici che si sono occupati di questo autore che, pur non avendo mai avuto una grande risonanza mediatica, è stato evidentemente apprezzato e commentato.
Con ricchezza di riferimenti il tuo testo presenta anche il panorama molto vario degli autori che hanno costituito l’entroterra formativo di Fiore e hanno contribuito a costituire il suo universo letterario, poeti moderni, anche molto dissimili fra loro per concezione di vita e stile, poeti del passato come Dante e in particolar modo Leopardi. Il capitoletto che dedichi al rapporto privilegiato fra Fiore ed il poeta di Recanati mi ha preso molto, proprio perché evidenzia lo stretto legame fra i due autori, nonostante la concezione desolata dell’uno e la visione escatologica dell’altro, fondata su una fede ferma, ma non sentimentale.
Ciò che più mi è rimasto nel cuore è però quel cenno alla poesia come “progetto salvifico”, io credo proprio che la poesia, quando non si fermi al semplice funambolismo delle parole, ma vada a scavare nel fondo dell’umanità di ogni persona, si riveli proprio come un progetto salvifico, come l’istanza ultima dell’essere verso una finale salvezza, nebulosamente intuita oppure positivamente definita in una fede, ma sempre anelata come come il fiorire di quel seme di eternità che ciascuno sente in sé, sia che voglia rinnegarlo come proiezione di un desiderio fallace o voglia accoglierlo come “segno” di un’impronta divina.
Credo che Elio Fiore quel seme di eternità l’abbia accolto per farsene testimone e “nunzio” a tutti gli uomini.
Annalucia Lorizio
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UN PREMIO CHE VOGLIO DEDICARE
ALLA MEMORIA DI ELIO
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Il saggio letterario “La luce e il grido” si è aggiudicato il Premio Letterario Internazionale Arché Anguillara Sabazia 2012 per la saggistica edita riservato ai giornalisti.
Con la seguente motivazione:
“Maria A. Di Lorenzo intende dare del poeta Elio Fiore un’immagine reale, in un testo rivelatore, forte, coinvolgente, essenziale.
La potenza della parola poetica è come un gomitolo di sentimenti che si snodano lungo i frammenti incandescenti disvelandone la sua più segreta essenza, i significati più nascosti dell’anima per risalire dall’abisso alla luce.
Un profondo sentimento religioso alimenta ed illumina interiormente il suo dolore.
La parola come arma della testimonianza, strumento del comunicare, del resistere, segnato dalla visione straziante della persecuzione ebraica del ghetto di Roma, per non dimenticare la memoria, nell’impegno di permettere a ogni ebreo di essere sempre un uomo libero”.
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LA PAROLA ALLA CRITICA
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“Chi meglio di lei poteva tracciarne il percorso esistenziale e poetico?”
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Ci sono essere umani che nascono indifesi, impossibilitati a difendersi, perché di animo nobile, col cuore di bambino, refrattari alle tentazioni materialistiche di questa società perversa e votata al protagonismo, all’apparire a tutti i costi. Sono i poeti, i sognatori, spesso avulsi dal contesto che li circonda, immersi nel loro mondo magico. Sono persone destinate all’immortalità, la loro presenza su questa terra ha lasciato un segno indelebile, ha contribuito a rendere migliori quanti li hanno conosciuti, hanno sparso ricchezza di sentimenti, luce da attingere, acqua pura in cui dissetarsi. Elio Fiore è stato uno di questi. E il libro di Maria Amata Di Lorenzo (Fara editore, pagg. 71 € 11,00) è un atto di giustizia nei confronti di quest’uomo.
Chi meglio di lei poteva tracciarne il percorso esistenziale e poetico? Maria Amata è donna sensibilissima, oltre che intellettuale autentica, sa discernere la pula dal grano, sa addentrarsi nelle miniere profonde e impervie per estrarne le pepite più preziose. In questo libro, a dieci anni della scomparsa del poeta, ha voluto riportare all’attenzione la sua arte, il suo esempio di essere umano, il suo desiderio di solitudine, lontano dalle contaminazioni, ai margini di una società falsamente brillante e maleodorante.
Eppure Elio Fiore era capace di porsi al centro dell’universo, portatore di verità incomprensibili agli altri, messaggero di fede e di etica. La sua poesia lo liberava da uno stato di apparente staticità, percorreva un itinerario sacrale dell’anima, un canto di fede ed esultanza, un inno di lode e di gratitudine. Un uomo che coltivava dentro di sé una ricchezza straordinaria, la fede e la speranza. Un pellegrinaggio spirituale il suo, che assurge a simbolo di ricerca della Verità.
Un’inquietudine che potrà placarsi soltanto quando potrà scoprire la propria identità profonda, del mistero insondabile che egli è. Come scrive la stessa Di Lorenzo: «La poesia era la luce e il pane della sua esistenza. Era uno sguardo (non omologato) levato ogni giorno verso il cielo, quel cielo che noi – tutti noi – abbiamo perso di vista, annegato nei simulacri della modernità. Uno spazio amoroso, trasparente come una fiamma, capace di custodire, dentro il turbine della storia, il semplice segreto della vita, nella lampeggiante incandescenza di un verso. Era preghiera e sorella della fede».
Maria Amata ha avuto modo di conoscerlo di persona, sicuramente è stato un incontro tra due spiriti eletti, che ha arricchito entrambi. Elio Fiore ha conosciuto anche gli orrori della guerra, i bombardamenti, la deportazione degli ebrei, tutto il male che gli uomini sono in grado di esercitare sui propri simili. Esperienze che hanno segnato il suo carattere e hanno inciso sulla sua produzione poetica, oggi frettolosamente dimenticata. Eppure Elio Fiore riscuoteva la stima di letterati come Mario Luzi, Carlo Bo, Eugenio Montale, Giuseppe Ungaretti.
©Salvo Zappulla, in Art-litteram, 24 marzo 2012 / in La voce dell’isola, 30 maggio 2012 – all rights reserved.
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“Un libro prezioso, denso e bellissimo…”
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Maria Amata Di Lorenzo l’aveva promesso a Elio Fiore, prima della sua prematura scomparsa: avrebbe scritto di lui. Ha mantenuto adesso la promessa con un libretto denso e bellissimo dal titolo “La luce e il grido”, un’espressione usata dal grande Mario Luzi per condensare in estrema sintesi l’orizzonte poetico del suo collega e amico romano. Che è fatto anzitutto di denuncia del dolore inflitto, il grido appunto, a partire da quello, indicibile e inconsolabile, del 16 ottobre 1943, quando Elio è un bambino di otto anni ed assiste impotente e stupito alla deportazione degli ebrei del ghetto di Roma dalla sua abitazione che è a pochi passi: «Qui nel segreto della mia dimora, scava la voce/della memoria, nel fragore del Tevere cresce la pietà /viva dal 16 ottobre 1943./ Quando il mio piede innocente /fu bagnato dal sangue dei giusti d’Israele. /Quando gli empi urlavano, sfondavano le porte coi fucili…» (da In purissimo azzurro, 1986)
L’esperienza traumatica resterà per sempre incisa nella sua carne, alimentando nel tempo un’acuta sensibilità verso tutte le sofferenze, a partire da quelle degli emarginati, dei senza casa, della madre di strada che, abbracciata al proprio figlio, chiede inutilmente l’elemosina ai passanti frettolosi, incapaci di riconoscere in quella donna Maria e in quel bambino Gesù, nell’eccitazione cieca e superficiale della vigilia di Natale: «Maria era tutta vestita di nero/stava per terra ferma, composta /tra le braccia stringeva Gesù. / Nell’affollato corso i passanti /andavano distratti, senza guardare /senza dare una lira d’elemosina». (da Myriam di Nazareth, 1992 )
Questo è il grido di Fiore, la missione di cui si sente incarnato per essere vedetta, stare sempre all’erta, con gli occhi bene aperti, a scorgere e a testimoniare il male della Storia. Una Storia che procede a tentoni, tra crimini orrendi e inenarrabili ingiustizie ma che faticosamente lascia affiorare dal suo magma di dolore il cammino del riscatto, dell’evoluzione, dell’affermazione lentissima ma certa del progresso.
Fiore, infatti, oltre il grido intravede la luce, la luce dell’Assoluto, che governa misteriosamente il mondo ed instilla nelle sue creature umane il desiderio di cercarlo, di farne la meta del loro faticoso cammino su questa Terra difficile e straordinaria.
Di fronte all’unicità della bellezza terrestre, della vita e della stessa quotidianità, in cui nulla è banale, neppure i gesti più consueti, il poeta romano esprime incanto e stupore. Perché l’esistenza stessa è miracolo e non sussiste soluzione di continuità tra visibile e invisibile, realtà materiale e metafisica.
Maria Amata Di Lorenzo ci racconta con passione questo mondo poetico, che è lirico ed epico insieme, tutto pervaso da una fede salda come roccia e il suo linguaggio plastico, lineare, a volte dimesso, estremamente comunicativo ed efficace; un linguaggio che resta dentro per la fiamma che lo alimenta.
E ci fa conoscere il Fiore uomo: l’amore per i bambini, la riservatezza, il fastidio per i falsi letterati e per chi sgomita per affermarsi, il cristianesimo sempre stillante la sua sorgente ebraica, la gioia per l’amicizia data e ricevuta – Giuseppe Ungaretti, Eugenio Montale, Carlo Bo – la venerazione per Leopardi, da cui è preso il titolo della raccolta In purissimo azzurro, settenario della Ginestra che è diventato anche il nome del blog di cultura creato dalla stessa Di Lorenzo.
Insomma un libretto prezioso per conoscere più profondamente un poeta di cui si sono occupati i maggiori intellettuali italiani ma che presso il grande pubblico deve ancora far sentire il suo grido e far risplendere la sua luce.
© Maria Gisella Catuogno, in Viadellebelledonne, 16 febbraio 2012 – all rights reserved.
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«La poesia era la luce e il pane della sua esistenza.
Era uno sguardo (non omologato) levato ogni giorno verso il cielo, quel cielo che noi – tutti noi – abbiamo perso di vista, annegato nei simulacri della modernità.
Uno spazio amoroso, trasparente come una fiamma, capace di custodire, dentro il turbine della storia, il semplice segreto della vita, nella lampeggiante incandescenza di un verso…»
MARIA AMATA DI LORENZO
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“Grazie alla cura e all’amore di Maria Amata Di Lorenzo nasce il racconto, la testimonianza, la memoria”
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Alla scrittrice e giornalista Maria Amata Di Lorenzo si deve l’unanime riconoscenza per aver messo al mondo questo libriccino dall’emblematico titolo La luce e il grido, quasi ottanta pagine di memorie, significati e significanti, tratti dall’incontro con il poeta Elio Fiore (1935-2002).
Quando i poeti nascono intorno a loro c’è un’aura che poche persone riescono a scorgere. Quando il poeta scompare c’è una folla di parole che lo accompagnano in una processione aurorale che stilla nel firmamento della Letteratura degli umani la nascita di un’altra stella: la cui luce durerà nei secoli a venire anche se essa è esplosa in un fragore multicolore in quel milionesimo di tempo insondabile della galassia.
Il poeta nasce dal dolore dell’infanzia: è successo a molti. Per Elio Fiore, come rivela l’intervista realizzata da Maria Amata Di Lorenzo, accade nell’ottobre 1943, a Roma, quando i nazisti rastrellano più di duemila ebrei e le loro tracce scompariranno nel fumo dei campi di concentramento sparsi in Europa. Il Nostro poeta è un ragazzo di otto anni: scopre in quell’evento, incredulo, l’inverosimile verità che l’uomo è lupo verso l’altro uomo. Il dramma si fissa in quel “grido” soffocato in un anima piccola, che crescendo imparerà a soffrire senza parlare.
Nasce il racconto, la testimonianza, la memoria. Per essere vere, queste forze, hanno bisogno di energia. L’energia per Elio Fiore è la Poesia: «È poeta colui che vede la vita con occhio diverso dagli altri ed è possessore di una verità che deve trasmettere ai suoi fratelli uomini» (pag. 21). Queste sono le parole dette dal Nostro nell’incontro con l’autrice di questo prezioso volumetto. Non c’è negatività nelle parole del Nostro, continua a chiamare fratelli quegli uomini che hanno sfondato, con i calci dei fucili, le porte di quei bambini come lui: «I bambini sono assetati d’affetto, i bambini amano la poesia: il mio rapporto con loro è molto bello, è spontaneo, forse perché sono rimasto un bambino, dentro non sono cresciuto: e quindi sono uguale a loro» (pag. 25).
A quanti poeti cosiddetti “maggiori” potremmo far somigliare, Elio Fiore, di quest’ultima rivelazione? La letteratura mondiale n’è piena. Come accade da troppi secoli, nessuno ascolta il bambino nascosto nelle spoglie dell’adulto, è troppo difficile, è fuori dal comune ordine del vivere insieme. Eppure c’è chi ascolta, chi coglie nei versi la sete di affetto dell’uomo “sempre solo” perché sconfitto dall’inizio dal peso grande della violenza degli uomini. C’è negli occhi del poeta una luce che pochi scorgono e che il grande poeta Alfonso Gatto chiamò: “La forza degli occhi”.
Questa tessera musiva, fuori dalla logica dei “Poeti laureati”, rivela la grande storia di un’altra voce, nel coro del XX secolo, che speriamo verrà inserita nelle prossime Antologie redatte ad uso scolastico, accanto ai nomi dei suoi migliori amici: Giuseppe Ungaretti, Carlo Levi, Ornella Sobrero, Carlo Bernari, Mario Luzi, Camillo Sbarbaro e altri ancora. Scrive la Di Lorenzo: «alla presentazione della sua prima raccolta Dialoghi per non morire, nel 1964, Giuseppe Ungaretti così si espresse sulla poesia di Fiore: «Se poesia è bruciare di passione per la poesia, se è vocazione ansiosa, tormentosa a svelare nella parola l’inesprimibile, nessuno è più poeta di Fiore»” (pag. 30); e non si sbagliava!
Grazie alla cura e all’amore che Maria Amata Di Lorenzo ha voluto profondere in questo lavoro possiamo vedere brillare la fiamma del poeta Fiore in tutta la sua grandezza, in tutta la sua umiltà, che lo ha accompagnato in ogni passo della sua sudata esistenza:
(…)
Eterna era stata l’attesa
mentre la terra mi divorava:
la polvere mista ad acqua
apriva i miei occhi, il cielo
e le stelle trasformavano la mia preghiera,
e il corpo perfetto dell’universo
spirava nella carne bruciata.
(dalla raccolta In purissimo azzurro)
© Vincenzo D’Alessio, in Farapoesia, 10 aprile 2012– all rights reserved.
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“Una scrittura avvolgente, tersa e nello stesso tempo di grande spessore”
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Con una scrittura densa, magmatica e vibrante, nel contempo lucida e analitica che simbolizza come due anime: quella dello scrittore, colta nell’emozionalità dell’argomento e, insieme, quella del critico, nella sua attenzione sapiente, erudita, Maria Amata Di Lorenzo ci conduce attraverso questa sua recente prova letteraria: La luce e il grido. Introduzione alla poesia di Elio Fiore. Il saggio critico – che contiene anche una lunga intervista della giornalista-scrittrice al poeta, fatta nell’estate del 1993, in seguito apparsa sulla terza pagina dell’ ”Eco di Bergamo” (25 agosto 1993) – doveroso e sentito omaggio a dieci anni dalla scomparsa di Elio Fiore: «vuole essere non un’opera esaustiva sull’intero corpus della sua produzione letteraria, ma una introduzione ai temi essenziali del suo universo poetico, un avvicinarsi a piccoli passi al mondo di questo autore che merita di uscire dal cono d’ombra a cui storie e antologie letterarie contemporanee sembrano voler relegare tante pur meritevoli voci del nostro Novecento», come sottolinea Di Lorenzo nella premessa.
Il saggio ha un primo grande pregio, quello di fare emergere una figura umana e poetica di grande valore e spessore, un poeta come Elio Fiore, lontano dai riflettori di un abusato presenzialismo salottiero che spesso ha connotato l’intellettuale intellighenzia degli anni d’oro della cultura italiana (anni ’60 e ’70 del secolo scorso), in specie di quella capitolina, essendo lo stesso Fiore romano di nascita. Una voce fuori dal coro, un uomo con un forte senso della religiosità, dello spendersi per gli altri attraverso il mezzo della poesia, che ha vissuto per più di vent’anni nella Roma israelitica, in quel Portico d’Ottavia testimone dell’epurazione ebraica e di cui lui stesso, bambino di otto anni, ne aveva assistito alla deportazione in un gelido 16 ottobre del 1943. La follia e il dramma dell’Olocausto saranno, poi, presenti molto nella sua opera poetica a cominciare dal 1964 con il libro di esordio Dialoghi per non morire (Edizioni Apollinaire).
Uomo schivo, si diceva, e poeta necessario per la sua vocazione ad essere nunzio, testimone, che pubblica per la prima volta nel 1964 a cui fa seguire un silenzio espressivo lungo venti anni per ripubblicare nel 1985 ed è del 1986 la sua raccolta più significativa In purissimo azzurro (Garzanti). Lo stesso poeta così chiarisce le ragioni di questo silenzio alla domanda conclusiva dell’intervista rilasciata a Maria Amata Di Lorenzo: «L’ultima domanda prima di congedarci: se si dovesse voltare indietro e riconsiderare tutta la sua esistenza, c’è qualcosa che cambierebbe o la rivivrebbe uguale?»
«La rivivrei tale e quale ma se proprio mi fosse concesso di modificare qualcosa, eliminerei il lungo silenzio poetico, durato dal 1964 al 1986: un silenzio editoriale piuttosto che creativo, perché ho sempre scritto poesie e molte di esse sono poi confluite nelle successive raccolte, soprattutto nel volume garzantiano del 1986 In purissimo azzurro. Ma avevo deciso così in quegli anni, più di venti: semplicemente, volevo pensare e vivere, volevo meditare, volevo starmene in disparte, lontano dalla società letteraria. Forse è stato un errore: mi avrebbero conosciuto prima, avrebbero apprezzato le mie poesie e sarebbe stato meglio».
Soprattutto ciò che emerge dal volume, scritto con mano sapiente e fortemente partecipata da Maria Amata Di Lorenzo, è un forte senso di religiosità “sociale” che permea l’opera di Fiore: una poesia che sa stare religiosamente nella storia. Una poesia che, come si diceva, si spende anche per gli altri, vettore d’inquietudine che riferisce non solo dell’Olocausto ma anche di altre mostruosità generate dalle guerre: i massacri di Sabra e Chatila, Piazza Tiananmen, il Sudafrica tormentato dalle violenze razziali, la Polonia sofferente di Padre Popieluszko.
Tutto questo e molto altro racconta Maria A. Di Lorenzo, facendo emergere tra le pagine la figura umana e poetica di un artista a tutto tondo; con una scrittura avvolgente, tersa e nello stesso tempo di grande spessore, la scrittrice percepisce bene e lo restituisce altrettanto, il senso della vita e dell’opera di Fiore, quella sua elevata umanità che nulla concede ai clamori ma che si rende fattiva nel grande dono del testimoniare con la poesia – novello Omero, aedo – le ingiustizie sociali, le tremende guerre e del suo delicato intimismo, teso alla immensa sfida di tramandare il forte senso della religione, vale a dire il credere fermamente in Dio.
Se nella prima parte la materia “viva” dell’intervista riporta la voce di Elio Fiore, il suo assunto sull’esistenza e sulla poesia, con un incalzare di domande vivaci, accattivanti e pertinenti, nella seconda parte del volume, squisitamente saggistica, la Di Lorenzo traccia un esperto excursus dell’opera di Fiore attraverso il suo tempo, i suoi numi tutelari come Giacomo Leopardi e i maestri/amici Sibilla Aleramo, Ungaretti, Montale, i suoi versi, completando un sentiero che dall’epicità, passando attraverso la testimonianza, si concreta, appunto, sempre più con un desiderio che si coniuga con le ragioni del cuore e si trasforma in un forte ed alto senso poetico/etico/religioso e di cui il poemetto Miryam di Nazareth (Ares, Milano 1992), è uno dei più suggestivi esempi.
Un poeta testimone delle cose del mondo ma anche proiettato verso l’Eterno, verso quel mondo che ci attende, quel dopo a cui saremo chiamati, con un credo religioso potente e imperioso. Ci piace citare, ancora, le parole conclusive di Maria Amata Di Lorenzo: «Lui che è vissuto per quasi trent’anni, da cattolico apostolico romano, nel cuore della Roma israelita […] guardando dal suo ballatoio i tre cortili del ghetto, soprannominati come le cantiche dantesche Inferno, Purgatorio, Paradiso, preparandosi ogni giorno alla chiamata divina con in mano il rosario di Lucia dos Santos, è convinto in modo assoluto che il male alla fine non vincerà perché perdonare è il succo della vita e la speranza, come scrive alla fine lui, ha sempre il fior del verde».
Dunque un grande merito attraversa questo scritto/omaggio, ed è quello di farsi esso stesso poesia, attraverso le parole di Maria Amata, scrittrice sensibile e poliedrica, nel raccontare, nel descrivere una vita ed un opera poetica di valore che, in una Italia di oggi così dedita all’apparire, all’immagine, colma un vuoto, scolpendo nella memoria una figura centrale e necessaria, come Elio Fiore, del mondo poetico del Novecento.
© Delia Morea, in Flannery, 27 maggio 2012 – all rights reserved.
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“Un percorso che sazia e ritempra sempre in un dialogo per non morire…”
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«Vita ti prometto d’essere fedele / alle tue leggi cupe e lievi…». Il primo grande poeta a farsi nume tutelare, certo, ma soprattutto garante concreto della poesia di Elio Fiore (Roma, 1935 – 2002) è stato Giuseppe Ungaretti, che gli donò una testimonianza struggente nel ’65, per la presentazione dei Dialoghi per non morire: «Se poesia è bruciare di passione per la poesia, se è vocazione ansiosa, tormentosa a svelare nella parola l’inesprimibile, nessuno è più poeta di Fiore».
Una quieta ma luminosa carriera che lo avrebbe presto portato ad altre raccolte (In purissimo azzurro, 1986, prefazione di Mario Luzi; Nell’ampio e nell’altezza, 1987, introduzione di Emerico Giachery; Improvvisi, 1990, prefazione di Mary de Rachewiltz, con una lettera di Rafael Alberti – etc etc.), senza contare i gustosissimi carteggi con Sibilla Aleramo, Camillo Sbarbaro, e ancora altre importanti edizioni avallate da letterati finissimi come Cesare Cavalleri, Alessandro Zaccuri, Valerio Volpini, il grande Carlo Bo, il magistero di fede di Carlo Maria Martini (Miryam di Nazareth, 1992).
Il cappotto di Montale (stampato da Scheiwiller nel 1996), fu un po’ il suo punto d’arrivo, con la strenua e dolcissima capacità di coniugare cronaca affettiva, militanza esistenziale e devozione letteraria, misticismo laico, sacrosanta memoria o meglio eredità novecentesca: «Non cigola più la carrucola del pozzo, / – l’acqua non sale più dal secchio – / e un’altra luce è su Monterosso, / ma le due palme alte guardano / il mare ed io, dopo aver letto / su una pietra versi di Orazio, / m’inginocchio a raccogliere / con il tuo cappotto, Eusebio, / una pigna, un’altra reliquia / che metterò sul mio tavolo»…
Eppure questo poeta rigoroso e duttile, goloso di vita e di poesia, ma fermo, severo conoscitore dei sanguinosi travagli della Storia – è stato pressoché dimenticato, e il decennale dalla scomparsa è passato l’anno scorso indifferente, senza nemmeno un degno omaggio all’autore di uno dei poemetti più belli della nostra coscienza italica e civile, «Battevano i soldati alle porte coi fucili» – squarcio di carne viva della sua lontana memoria: «A Roma, dopo il bombardamento del 19 luglio ’43,» – recita la fervida postilla dei Dialoghi per non morire – «Fiore fu ospitato dalla nonna in Trastevere: e qui, il 16 ottobre successivo, fu costretto – a soli otto anni – ad assistere alla deportazione degli Ebrei (quella deportazione rievocata anche, in pagine altissime, da Giacomo Debenedetti)».
Ci mancano, insieme, il suo rigore e l’amabilità, la fedeltà del suo porsi: «Più che l’indignatio profetica – senza dubbio necessaria e vitale al turbato testimone», scriveva Emerico Giachery, «di tanti misfatti che inquinano la storia di un tempo non di rado apocalittico, ma meno specifica, e più reperibile anche in altri poeti – peculiare grazia è appunto questo dono di stupore e di lievitazione»… «Il singolare di Fiore» – ora è Luzi a elogiarlo – «è proprio questo: nulla è occasionale, tutto è segno e significato».
Ecco perché il piccolo ma preziosissimo libro di Maria Amata Di Lorenzo, La luce e il grido, giunge oggi fervido, e diremmo indispensabile all’appuntamento con questo ricordo che s’impone, sublime semplice omaggio che in fondo ci redime: «Tutto in Fiore allora è teofania, tutto è lotta incessante perché il bene prevalga, e con il bene la Bellezza che imperitura governa il mondo. Tutto è segno di qualcosa che nasce dalla Storia e che poi la trascende, la supera nell’avverarsi della profezia, e di cui la poesia si fa, necessariamente, strumento».
Maria Amata snoda recensioni e interviste, in un percorso che sazia e ritempra sempre le risposte con altre affiatatissime domande, in un dialogo per non morire, certo, ma soprattutto per amare, vivere amando: «È questo il compito del poeta, dice Fiore: ‘seppiare nell’anima’, come faceva del resto Eusebio, allo scopo di resistere al mondo, al tempo ostile in cui vive, restando ‘fedele alla musica segreta’, perché ‘alla fine, il male non prevarrà’. A qualche bivio, su una strada che si credeva deserta, ci sarà Dio ad aspettarci, nel segno della Bellezza e dell’Amore, per battezzarci il labbro». Averci restituito – incredibile a dirsi, nella fede! – l’improponibile punto d’incontro, «un terreno di ideale raccordo» tra il Nostro e Leopardi, è un altro cospicuo merito di questo piccolo saggio dal cuore forte e dallo sguardo lungimirante: «Cattolico deluso, disgustato dalla vuota pompa dei cerimoniali ecclesiastici, Leopardi incontra Fiore sul terreno della resistenza e del virile superamento della Storia, nonché di un profondo e sincerissimo anelito a una religiosità primigenia, incorrotta, di tipo evangelico».
© Plinio Perilli, in “Almanacco” puntoacapo 2013 – all rights reserved.
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Maria Amata Di Lorenzo
La luce e il grido
Introduzione alla poesia di Elio Fiore
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